Biografia

Massimo Orsi 1962 vive e lavora ad Alessandria.

Artista attento al mondo che lo circonda, da sempre focalizza l’attenzione sulle problematiche della società contemporanea. Si muove con disinvoltura attraverso i vari media artistici -installazioni, scultura, tessitura- eleggendo però la pittura a mezzo di espressione per eccellenza, mescolando così una visione “classica” del fare arte al ruolo “ultramoderno” dell’artista militante.

Il suo lavoro è sempre dettato da un’esigenza prima di tutto politica. Fare arte significa prendere una netta posizione nei confronti della società in cui viviamo: denunciarne le falle e le ingiustizie con un occhio diverso, da un punto di vista artistico e, perché no, estetico. La sua analisi della società contemporanea è attenta alle tecniche e ai mezzi della comunicazione di massa e, soprattutto, estrapola dal fiume di immagini che ci trascina ogni giorno, il simbolo primo del consumismo: il logo. Manipolato, cambiato, trasformato, il logo si moltiplica, esplode, si svuota del colore, varia e si altera diventando altro.

 1991

In occasione della sua prima mostra personale alla galleria Il Segno di Roma Massimo Orsi espone una serie di light box con cui lancia il suo primo messaggio all’interno del mondo dell’arte contemporanea. I grandi parallelepipedi retroilluminati ricoperti dai più svariati materiali che formano scritte di vario tipo, svelano già l’approccio intelligente e ironico, finanche sarcastico, di Orsi verso il mondo che lo circonda.

1992-1993

La serie di opere Terra-terra, esposta per la prima volta al Palazzo delle Esposizioni di Roma in occasione della mostra Giovani artisti IV, porta Orsi a concentrarsi su un unico segno, l’OK, che si moltiplica per quattro e diventa logo scomposto in quattro ovali poggiati sui lati di un quadrato, all’interno del quale è iscritto un rombo. Orsi si appropria così di uno dei simboli pop della nostra società ottimista, consumista e profondamente “americanizzata” e lo scompone e ricompone in varie possibilità.

Con i Terra-terra, l’artista gioca con l’idea di composizione e combinazione di materiali sempre diversi, non sempre compatibili tra di loro e sulla casualità degli abbinamenti. Il logo si divide in quattro parti, ognuna delle quali viene stampata su un quadrato di un differente materiale, per poi essere riassemblato e ritrovare la forma originale.

L’artista, nella concezione dei Terra-terra, gioca con il concetto di memoria e manipolazione attraverso una ricerca quasi esclusivamente materica. È la combinazione dei materiali ad interessarlo quando mette insieme ferro e vetro, carta e pietra in un incontro di fragilità e forza, insieme effimero e duraturo.

1994-1995

Nella mostra Quattro tempi, nello studio Stefania Miscetti di Roma  Massimo Orsi presenta l’installazione 32 bidoni:a una scultura = un bidone:x, in cui si celebra il logo/chiave, che sarà per molto tempo la sua cifra distintiva, centro della propria ricerca e analisi, attraverso questa installazione l’artista si interroga sul significato dell’incognita, quella x che dopo il crollo della scultura fatta di 32 bidoni, dovrà per forza trovare significati nuovi e indicare nuove strade.

 Esplora ancora il campo dell’installazione con la serie Tappabuchi (1993) un approfondito lavoro sulla memoria, che l’artista riprenderà poi nel decennio successivo.

Tappabuchi è la raccolta di innumerevoli oggetti, posizionati per terra in uno spazio predefinito e in maniera apparentemente casuale. La scelta va dai bambolotti ai bulloni, dagli arnesi di lavoro a piccoli oggetti scovati in fondo ai cassetti di cucina, si tratta di object-trouvé, a volte semplici scarti, altre ricordi che, come innocenti madeleines, riportano la nostra memoria indietro, in punti imprecisati della mente. È il tentativo, ossessivo e vano, di tappare con tutto ciò che ci capita per le mani i buchi, cioè le falle del nostro cervello, i vuoti di memoria.

Tentativo vano perché non si riuscirà mai a coprire tutti i buchi e ad avere il controllo totale di pensieri e ricordi.

Combinazione di pensieri e ricordi si trova anche nei Caleidoscopi, presentati per la prima volta a Montreal (Canada) nel 1994. In questi lavori, all’assemblaggio casuale di piccoli oggetti, carte colorate, pezzi di plastica, mozziconi di sigarette, si unisce la casualità del disegno che ogni volta si forma, tramite un gioco di specchi,  alzando il caleidoscopio verso la luce e facendolo ruotare. Ancora una volta la memoria si mescola con il caos del ricordo, racconta sprazzi di vita passata e induce a nuovi pensieri in un’atmosfera giocosa e di divertita meraviglia.

 Sempre in questi anni, Massimo Orsi presenta la serie di lavori Grandezza naturale, in cui utilizza il mezzo fotografico. Ancora una volta il logo OK si sovrappone a svariati oggetti fotografati e assemblati in combinazioni sempre diverse e giocando sulla manipolazione e mistificazione delle loro dimensioni naturali.

1995-1997

Da 32 bidoni:a una scultura = un bidone:x fino ai lavori Grandezza naturale fino ai Terra-terra, l’OK va avanti e si evolve.

Massimo Orsi lo altera, lo manipola e lo rende autonomo. E, nello stesso tempo, lo denuncia: denuncia la nostra attitudine a utilizzare e consumare simbologie senza riflettere, svuotandole di significato, appropriandoci di immagini e contenuti che, spesso, non riusciamo nemmeno a decodificare.

 Dalle installazioni, l’OK passa nei dipinti. Il 1996 è l’anno della “svolta” pittorica e figurativa. In occasione della mostra Martiri e santi alla Galleria L’Attico di Fabio  Sargentini di Roma, Massimo Orsi espone il suo primo lavoro figurativo in cui non rinuncia comunque al logo che, ormai, lo rappresenta. In Autoritratto con carnefice, le forme delle due figure, centrali in uno scenario quasi metafisico, si combinano seguendo le linee immaginarie dei quattro ovali intorno al quadrato e danno forza alla composizione rendendola solida e drammatica insieme.

1998-2000

Dalle forme adattate al logo, Massimo Orsi passa, con la serie di lavori Senza soluzione di continuità, al logo dipinto come se fosse una combinazione decorativa di un tappeto. I tappeti dipinti sono il prologo di quelli che alcuni anni dopo farà realizzare in Pakistan. Si tratta di lavori preziosi, meticolosi e attenti al dettaglio. Tappeti che potrebbero svilupparsi all’infinito dove perfezione e errore si mescolano e creano un equilibrio di forme e colori. Un lavoro di totale concentrazione e attenzione al particolare, alla simmetria del logo rispetto all’andamento del disegno. Orsi riempie così la tela di simmetriche file di loghi/ok come se stesse tessendo, appunto, un vero e proprio tappeto.

Ma l’OK, il logo, non si esaurisce nella realizzazione dei lavori di Senza soluzione di continuità, ma trova anche strade alternative. Ed è proprio intorno al 1999 che Orsi ritrova la scrittura.

Comincia così la serie delle scritte realizzate con un nuovo font tipografico, caratterizzato dall’adattamento delle lettere dell’alfabeto alle forme del logo OK. L’artista non rinuncia così né alla propria ricerca formale né alla propria ironia che si esprime soprattutto attraverso la scelta delle frasi.

È questo un periodo di grande sperimentazione in cui, riprendendo un’idea di qualche anno prima, Massimo Orsi realizza sculture in gesso che espone nella mostra Futurama al Museo Pecci di Prato (2000). Caramiaironia, è questo il titolo dell’installazione che vede piccoli ominidi colorati, formati da quattro elementi ovali ed uno quadrato, (le 5 parti che compongono il suo logo) sparpagliati su di un lungo tappeto anch’esso stampato con parti del logo stesso.Dal bidimensionale al tridimensionale, senza soluzione di continuità.

2001

Dopo oltre 10 anni di soggiorno romano, Massimo Orsi torna ad Alessandria dove dà avvio a un nuovo tipo di percorso. La memoria, il ricordo, tutto ciò che fa parte del suo bagaglio di esperienze viene a galla e si mescola in dipinti da cui l’OK non scompare mai del tutto.

Né scompare, il lavoro sui tappeti e sul concetto di ripetizione e modularità. Durante un lungo viaggio in Pakistan, i tappeti dipinti si trasformano in tappeti tessuti e annodati dagli artigiani di Quetta. Con i suoi OK trasformati in nodi e fili colorati, Massimo Orsi cerca un incontro tra uno dei simboli più popolari dell’Occidente e l’arte paziente degli artigiani orientali.

2003-2006

Rientrato ad Alessandria, affronta una nuova fase della propria arte. Trovarsi di nuovo nella sua città natale rende naturale un lavoro sulla memoria, sul proprio essere, sull’identità.

In questi anni, a partire dal 2004, Massimo Orsi si avvicina di nuovo al ritratto. Un nuovo figurativismo che punta soprattutto alla presenza della figura umana mai casuale, sempre legata all’intenso percorso di ricostruzione e scavo all’interno della propria memoria e del proprio passato.

 Con il progetto I dipinti della memoria che inizia intorno al 2005, Orsi ripercorre la sua storia artistica: foto di installazioni, rimembranze di mostre, antiche esperienze.

Il risultato è una sorta di catalogo dipinto, fatto di piccoli quadri di 20×30 cm in cui rappresenta nuovi e vecchi objects-trouvées, dai ricordi ai simboli della propria generazione e della nostra società. E, ancora una volta, non resiste al fascino della scomposizione e della modularità. Sulla foto da cui nasce il quadro l’artista poggia una griglia, virtuale, che divide l’immagine in quadretti più piccoli poi montati in modo da lasciare tra una cornice e l’altra alcuni spazi vuoti: i vuoti della memoria, le lacune che il tempo ha lasciato.

2007-2010

A partire dal 2007 si sviluppa una nuova tranche della ricerca di Massimo Orsi che torna all’esplorazione dei loghi, non più solo l’OK e al concetto di utilizzo del brand a ogni costo. Ma questa volta il logo si svuota, esplode verso l’esterno, il colore fuoriesce e non resta che il marchio vuoto, privato di ogni senso e simbologia. Privazione che, però, lo rende simbolo di altro.

Il logo svuotato del colore, l’involucro bianco, diviene denuncia verso il consumismo, verso i falsi valori, verso alcuni atteggiamenti tipici della nostra società: superficialità, culto dell’apparenza e del denaro.

2010-2011

Negli ultimi anni, la presa di posizione di Massimo Orsi si fa ancora più forte, l’idea e la parola prendono il sopravvento. Con i due cicli di dipinti Dico e A volte le parole non bastano, Orsi commenta, attraverso citazioni e manipolando immagini di cronaca, ciò che ci circonda.

 Martellato e circondato, come ognuno di noi, dall’informazione visiva, nel lavoro A volte le parole non bastano, Massimo Orsi raccoglie immagini significative di ciò che sta accadendo attorno a noi. Le svuota dei dettagli ma lascia che le sagome, a loro volta riempite di colore e spesso di sabbia per renderle ancora più materiche e concrete, parlino da sole. Dai soldati in guerra alle veline della televisione nazionale, l’artista ripercorre tutto l’immaginario collettivo che, spesso anche violentemente, viene costruito e propagandato nelle nostre menti. Ecco, quindi, la denuncia verso questa modalità di propaganda e diffusione delle informazioni, delle idee collettive, della simbologia comune.

E tale denuncia si fa ancora più forte con i Dico, (“dico” proprio perché l’artista dice quello che pensa) in cui le frasi che l’artista sceglie, squarciano, seppure solo per un attimo, il velo di indifferenza che ci stanno tessendo attorno.

Le parole dei Dico, realizzate con certosina precisione pittorica, spaziano da constatazioni sul nostro modo di vivere, al nostro senso di appartenenza e identità, fino all’analisi degli avvenimenti mondiali più attuali. Frasi caustiche da cui traspaiono, un’ironia corrosiva, una visione pungente e mordace della realtà.

Il lavoro di Massimo Orsi non si ferma alla produzione di opere. Da oltre 10 anni collabora alla realizzazione di progetti e laboratori didattici.

L’occasione di esplorare il mondo della didattica dell’arte è arrivata all’artista nel 2000 in occasione di un progetto che la cooperativa eva d. toklas produzioni ha realizzato nella Libreria per ragazzi Mel Giannino Stoppani di Roma. Una prima esperienza con gruppi di bambini, un pubblico apparentemente più “facile” perché più ricettivo e meno bloccato da sovrastrutture, che si è ripetuta più volte nelle scuole.

Da lì l’artista si è confrontato con un progetto europeo della città di Alessandria rivolto agli adolescenti fino a giungere alla forte esperienza del laboratorio in carcere (Parole per volare, Istituto Penitenziario Mario Gozzini a custodia attenuata, Firenze, 2008) con detenuti adulti da cui è stato tratto un video documentario.

                                                                                                                                                                                     Elena Fierli